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TORNIAMO UMANI
Trasmissione del 6 novembre 2023
"- Nella vita che viviamo ogni giorno sono poche le cose belle. Il lavoro difficilmente è bello. L’universo cittadino è insopportabile. La nostra esistenza è fatta di tante piccole cose mediocri o dolorose. Che cosa resterebbe di bello intorno a noi (oltre alla natura e alle opere d’arte?). La gioventù. Ebbene questa gioventù ci appare oggi mascherata, mortificata, invecchiata. Pochi giorni fa, ero a Palermo alla ricerca di personaggi per un mio film, ed ecco che si è presentato in albergo un gruppo di barbe in fondo alle quali brillavano degli occhi. Occhi anche simpatici, non dico di no, ma io in realtà non sapevo bene con chi stavo parlando, non capivo: avevo davanti a me un muro di barbe e basette. Non vedevo più i lineamenti dolcemente umani della gioventù, le gote illuminate da quella forza misteriosa che si possiede soltanto per pochi anni nella vita. Il modo in cui si vestono i giovani è già di per se stesso sgradevole. Ma è appena un elemento accessorio del bisogno di mortificazione e di mistificazione del proprio aspetto. Il linguaggio principe, non verbale, con cui i giovani si esprimono sono i capelli.
- Ciò implica necessariamente la decadenza della comunicazione verbale. La parola è in crisi?
- Sì che è in crisi la parola. Nel senso che oggi gli uomini tendono a sacrificare totalmente l’espressività alla comunicatività.
- Che cosa intende dire di preciso?
- Come lei sa, ogni lingua è composta di varie lingue specialistiche, particolari o gergali. Fino a qualche anno fa alla guida dell’italiano c’era la lingua letteraria, cioè una lingua tipica della sovrastruttura. Oggi si assiste ad un fenomeno nuovo e madornale: alla guida dell’italiano non c’è più una lingua della sovrastruttura, ma una lingua dell’infrastruttura. Cioè la lingua delle aziende, del mercato. Quest’ultima è una lingua comunicativa, e semplicemente comunicativa. Chi deve offrire della merce deve farsi immediatamente capire da chi la richiede; chi deve produrre, deve farsi immediatamente capire da chi deve consumare. Nell’ambito della fabbrica, dirigenti e tecnici devono immediatamente capirsi fra loro. Inoltre, se ci si rivolge alla “massa”, il discorso deve essere assolutamente comprensibile: non solo, ma non deve neanche porre il problema della comprensibilità. Dev’essere cioè perfettamente normale (come sono sempre infatti i discorsi nei giornali e soprattutto alla televisione). Se dunque la lingua-pilota è questa, tutto lo spirito dell’italiano tenderà a perdere particolarismi ed espressività per acquistare in comunicatività pura. Si tratta certo di un impoverimento, di una “perdita di umanità”. Quanto ai giovani essi stanno perfettamente adottando questo modo di parlare omologato e tutto uguale: anche coloro che si battono contro la società che lo esprime.
- Meglio, quindi, le società repressive?
- Sì, almeno in quanto la tolleranza è la peggiore delle repressioni. Il peso del potere classico creava situazioni estreme, che l’uomo viveva con tutto se stesso: o rassegnandosi, fino a forme di santità, o ribellandosi, fino a forme di eroismo. I diversi, i perseguitati, gli esclusi, vivevano la loro condizione umana come una tragedia: ma questa tragedia non li umiliava.
La tolleranza smussa gli estremi e riporta tutto nel mezzo, omologandolo. Certi fatti e certi uomini non possono essere ridotti alla normalità? Ebbene, cataloghiamoli, facciamo un dialogo, comprendiamoli, dice il Potere tollerante. Così facendo crea dei ghetti diversi, ‘nominati’: e dà loro il permesso di esistere! Cosa c’è di più umiliante? Nel mezzo, nell’immensità della maggioranza silenziosa, il dovere è quello di assomigliarsi tutti. I casi anche appena eccessivi, sono ‘da ghetto’.
[...]
- Non amo il nuovo tipo di civiltà borghese, in cui mi tocca vivere, non amo l’applicazione della scienza, questo serrato, inesorabile, ciclo di produzione e consumo, non amo l’uomo trasformato in consumatore. Come non amo la scomparsa della cultura, dell’arte, dell’artigianato, del contadino, della religione… Quando i contadini erano soli nei campi e alzavano la frasca di ulivo per scongiurare il temporale, rappresentavano una forma autentica, reale, della vita umana. Era cultura, anche se sotto forma di un’oscura, rustica, religiosità."
Pier Paolo Pasolini intervistato da Massimo Conti, Il futuro è già finito, Panorama, 8 marzo 1973
https://www.cittapasolini.com/post/il-futuro-%C3%A8-gi%C3%A0-finito-intervista-a-pier-paolo-pasolini-1973
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