Cosa è una puja?Come fare una puja a casa e in loggia massonica per Tvaṣṭṛ o Viśvakarmā il dio indù degli artigiani e degli architetti. È anche indicato come Grande Architetto Dell'Universo o GADU ed è un dio indù appunto

1 year ago
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https://rumble.com/v1wwp4g-chi-vishwakarma.html?mref=rljsx&mc=e5yiv https://rumble.com/v1wpsyu-tva-o-vivakarm-il-dio-vedico-degli-artigiani-e-degli-architetti..html?mref=rljsx&mc=e5yiv quindi i massoni sono induisti appunto non ebraici questo è il loro Dio eh...questo non è il Dio Creatore unico della Bibbia ma è uno dei tanti indù..come ho detto la massoneria pratica l'induismo...e l'induismo ha tutta una marea di precetti da seguire..dovrebbero pure cambiare libro e leggere i veda e non la Bibbia e cantare gli inni con i mantra tutti i giorni obbligatoriamente fare puja ogni giorno obbligatoriamente,anche l'induismo ha tutte delle regole da seguire..l'induismo è un monoteismo appunto perchè l'induismo si basa come un Dio unico spirito ma che ha tante funzioni raffigurate come dei singoli ma Dio è Uno però ..Tvaṣṭṛ è il dio vedico degli artigiani e degli architetti. È anche indicato come l'architetto dell'Universo, ovvero colui che presiede alla creazione. Nel Viṣṇupurāṇa è contato tra gli Aditya,
È in genere identificato con la divinità successiva chiamata Viśvakarmā è il dio indù che presiede tutti gli artigiani e architetti. Egli è il "Grande Architetto", colui che ha inventato e progettato l'architettura divina dell'Universo, il Signore della Creazione.
https://it.wikipedia.org/wiki/Tva%E1%B9%A3%E1%B9%AD%E1%B9%9B
https://it.wikipedia.org/wiki/Vi%C5%9Bvakarm%C4%81
spiegazione qui in questo video su daksa: https://rumble.com/v1wot72-daksha-un-dio-ind-dalla-testa-di-capra-nellinduismodaksha-uno-dei-prajapati.html?mref=rljsx&mc=e5yiv
Presso la religione induista e anche in molte tradizioni buddhiste, Pūjā (devanagari पूजा) (dal sanscrito reverenza) è un termine che genericamente indica un atto di adorazione verso una particolare forma della Divinità, che può esprimersi in un'offerta (upachara), un culto, una cerimonia o un rito.
https://it.wikipedia.org/wiki/P%C5%ABj%C4%81 https://en.wikipedia.org/wiki/Puja_(Hinduism)
Tipologie
Esistono molti tipi di Puja. Le sacre scritture (tra cui i Veda e le Upanishad)contengono istruzioni molto precise, rigide e dettagliate su come compiere rituali di adorazione rivolti ad ognuno dei deva che compongono l'articolato pantheon induista.

Tradizionalmente, essa si esegue di fronte ad una Murti, ovvero una rappresentazione fisica (ad es. una statua o un'immagine) dell'aspetto di dio che si intende adorare. La celebrazione di una puja può essere accompagnata dal canto di mantra o inni sacri, e spesso prevede il lavacro e l'unzione dell'idolo[1] e anche l'offerta di vere e proprie offerte (quali ad esempio frutta, latte, riso, fiori, ecc.) che nel caso di alimenti vengono poi consumati dall'offerente, in quanto dopo il rituale essi divengono prasada, ovvero cibo benedetto e purificato.

Nei Tantra si usano effettuare anche la purificazione del suolo, meditazioni ed invocazioni della dea-Terra, controlli della respirazione da parte del praticante.

L'esecuzione della Puja riveste un ruolo molto importante anche a livello esoterico; ogni gesto, movimento o parola pronunciata ha infatti un ben preciso significato simbolico, e corrisponde all'ottenimento di uno specifico beneficio, sia esso spirituale, intellettuale o fisico.

Nel Buddhismo
La pratica della Pūjā è stata adottata anche nel buddhismo, dove la pratica delle offerte è parte della tradizionale devozione riservata alle statue del Buddha o di bodhisattva.[2] Nel Buddhismo tibetano esiste in particolare la Guru Pūjā. Essa si svolge all'alba e al tramonto, cantando brani delle Scritture e tenendo un periodo di meditazione comune.

Gli indù adorano le immagini e le statue eh..quindi secondo la religione cristiana e la Bibbia sarebbero degli idolatri e si dovrebbero convertire e non farlo più..questo non è spiritismo eh è proprio la religione induista non è stregoneria questa..vi porto io e vi faccio vedere i riti induisti come fanno..ci faccio il servizio così..

Nell'Induismo, upachara (Sanscrito: उपचार; servizio o cortesia)[1] si riferisce alle offerte fatte alla divinità come parte di un Pūjā.
https://it.wikipedia.org/wiki/Upachara
Sebbene le upachara differiscano secondo la forma di preghiera, qui sono presenti in un elenco di 16, che parallelizza il processo che realizza il benvenuto per l'ospite, come segue[2][3]:

Ahvahana: invocazione della divinità
Āsana: offerta di un posto alla divinità
Padya: offerta di acqua per lavare i piedi
Arghya: offerta di bevanda
Achamaniya: offerta di acqua per dissetare la bocca
Snana o Abhisheka: bagno
Vastra: offerta di un capo di abbigliamento
Yagnopavit o Mangalsutra: posizione sul filo sacro
Anulepana o Gandha: cospargimento di profumo
Pushpanjali: offerta di fiori
Dhupa: bruciamento di incenso
Diya o Aarti: agitamento una lampada ad olio davanti alla divinità
Naivedya: offerta di cibo
Namaskara o Pranama: prostrazione o saluto reverenziale
Parikrama o Pradakshina. Circumambulatio
Visarjana: congedo

Con il termine maschile sanscrito abhiṣeka (devanāgarī: अभिषेक) s'indica in quella lingua sia quella particolare cerimonia religiosa hindū nella quale l'immagine (mūrti) rituale di una divinità viene purificata per mezzo di un'aspersione rituale, sia, ma in ambito buddhista una cerimonia di consacrazione, d'iniziazione.
https://it.wikipedia.org/wiki/Abhi%E1%B9%A3eka
L'abhiṣeka in ambito hindū
In questo ambito il termine abhiṣeka indica quella particolare cerimonia religiosa hindū nella quale l'immagine rituale di una divinità (mūrti) viene, anche quotidianamente, aspersa spesso con acqua e latte, fino a diverse sostanze quali il succo di canna da zucchero, olio di legno di sandalo, frutta, miele, cagliata, curcuma, polvere di riso, questo nelle cerimonie più complesse.

Lo abhiṣeka può inerire anche il rinnovo del tempio stesso, con la sua riparazione e restaurazione che intende così rinnovare la potenza della divinità lì custodita.

Lo abhiṣeka è spesso seguito dallo ārtī, consistente nella offerta della luce, quindi dalla vestizione e dall'adornamento delle mūrti.

L'abhiṣeka in ambito buddhista
In ambito buddhista il termine sanscrito abhiṣeka acquisisce un significato diverso, andando a indicare invece quelle cerimonie di consacrazione o di iniziazione.

Nella letteratura buddhista il termine viene così reso:

in lingua pāli: abhiseka;
in lingua cinese: 灌頂 ( guàndǐng), dove intende l'atto di "spruzzare dell'acqua sul capo";
in lingua coreana: 관정 (kwanjŏng);
in lingua giapponese: 灌頂 (kanjō);
in lingua tibetana: དབང་བསྐུར (dbang bskur).
Va tenuto presente infatti che il termine indicava originariamente la cerimonia di intronizzazione di un re hindū o l'investitura a principe ereditario. In tal senso come il re investe il suo erede spargendo con le mani sul suo capo dell'acqua profumata proveniente dai quattro mari, allo stesso modo i buddha incoronano, investono dell'autorità spirituale i bodhisattva, loro eredi del Dharma, quando questi pronunciano i sacri voti per raggiungere la buddhità.

Così nel Mahāvastu, opera redatta nell'ambiente dei Lokottaravāda, un ramo della scuola dei Mahāsāṃghika, l'ultima tappa del bodhisattva viene indicata abhiṣeka e non dharmameghabhūmi.

Il termine abhiṣeka è particolarmente presente nella letteratura del buddhismo tantrico come, ad esempio, nello Mahāvairocanābhisaṃbodhi, dove viene a indicare quella cerimonia di iniziazione dei discepoli che così "entrano nel maṇḍala", là dove apprendono i gesti (mudrā) e le formule (mantra) rituali.

Una Diya, divaa, deepam, o deepak è una lampada ad olio composta di norma da argilla, con uno stoppino di cotone immerso in Ghi od olio vegetale.
La diya d'argilla è spesso usata come illuminazione per occasioni speciali, mentre la variante composta d'ottone viene utilizzata nelle case e nei templi. Le diya sono caratteristiche dell'India, e sono spesso usate nelle festività Hindu, Sikh, giainiste e zoroastriane come la celebrazione del Diwali o la cerimonia del Kushti. Una lampada simile chiamata lampada a burro è utilizzata nelle offerte del buddhismo tibetano.
https://it.wikipedia.org/wiki/Diya

La pradakshina (in lingua sanscrita Parikrama (IAST: pradakṣiṇa o pradakṣiṇā) nell'induismo indica una circumambulazione con la quale i fedeli manifestano la venerazione ad una divinità[1]. Pradakshina significa a destra. Entrambi i termini sono utilizzati per una divinità in un tempio, fiume, collina sacra o gruppi di templi. Fare una pradakshina è un rituale indù
https://it.wikipedia.org/wiki/Pradakshina
Descrizione
Nella maggior parte dei templi indù ci sono uno o più pradakshina[4] e si situano attorno al sacrario che contiene la divinità principale. Possono anche esserci dei pradakshina secondari più lunghi, aventi lo stesso centro, ma su un campo di applicazione più ampio. In generale, questi pradakshina secondari non si trovano nello stesso tempio, ma su una serie di templi, un villaggio o un'intera città[2].

La pradakshina si realizza attorno al fuoco sacro di Agni, alla pianta sacra Tulsi[5] (Ocimum tenuiflorum) e all'albero sacro Pipal[6]. La pradakshina attorno al fuoco sacro fa parte della cerimonia del matrimonio indù[7].

In genere, la pradakshina viene fatta dopo il completamento del culto tradizionale (pūjā) e dopo aver reso omaggio alla divinità. Deve essere realizzata in una fase di meditazione. La rotazione viene eseguita in senso orario.

Al contrario, l'approccio alla pradakshina è un passaggio di transizione tra l'ingresso nel tempio e il culto nel santuario.

La pradakshina viene praticata anche nel buddhismo
Nel buddhismo la circumambulazione (sanscrito: pradakśiṇā, letteralmente "dare la destra" ovvero mostrare il lato onorevole del corpo all'oggetto di devozione; anche: parikrama, "il percorso attorno"; tibetano skor ba, pronuncia: korwa; cinese: 绕行 ràoxíng) avviene sempre seguendo il corso apparente del sole, ovvero dando la destra al centro del cerchio e procedendo da Est a Sud e da Ovest a Nord, cioè in senso orario.

La circumambulazione si compie sia per accumulare meriti, attorno a uno stūpa, un luogo sacro (come il monte Kailash o la città di Lhasa), un tempio (come il tempio Mahabodhi), sia per venerare una persona (come Gautama Buddha al tempo della sua vita), sia come pratica meditativa (ad esempio vipassanā o la meditazione camminata nel Buddhismo Chán). Infine può essere una forma di rispetto formale, quale il procedere in un tempio buddhista entrando dalla porta sinistra, procedere all'interno in senso orario e uscire dalla porta destra, ugualmente ai movimenti che si compiono all'interno di un dōjō zen.

Il praticante che compie la circumambulazione si trova nella posizione di attribuire valore di axis mundi al centro del suo percorso.

Induismo
In India il rito viene genericamente denominato parikarama: se si esegue in senso orario è più specificamente detto pradakshina; quando si esegue in senso antiorario è detto prasavya.

Presso la religione induista, le Murti sono rappresentazioni fisiche (immagini, statue, ecc.) di forme o aspetti del Brahman, utilizzate durante l'adorazione come punti di focalizzazione devozionale e meditativa. Secondo gli Śastra, la murti può essere realizzata in legno, metallo, pietra, argilla, sabbia, pietre preziose, e può essere altresì raffigurata nei dipinti a olio e nella mente.
https://it.wikipedia.org/wiki/Murti
Raffigurazione
Queste forme o aspetti a volte sono astratti, ma più spesso si tratta di rappresentazioni antropomorfiche della Divinità, come ad esempio Śiva o Gaṇeśa, Rāma o Krishna, Sarasvati o Kālī. A causa della turbolenza della mente (vŗitti) che rende impossibile concentrarsi sul Brahman in quanto ad Entità senza forma e trascendentale, il divino viene adorato attraverso una forma. La scelta di una forma anziché un'altra (senza tuttavia negare le altre) è individuale e soggettiva, in quanto dipende dall'attrazione provata dal devoto verso questa o quella forma del Brahman, nella consapevolezza che qualsiasi forma è solo un temporaneo compromesso avente lo scopo di permettere all'uomo di realizzare la Divinità senza forma.

Nelle raffigurazioni degli Dei posture del corpo, gesti delle mani (mudrā), acconciature, oggetti, vestiario, ornamenti, personaggi e figure di contorno sono codificati secondo un preciso simbolismo. Il linguaggio simbolico, in grado di rendere visibili i miti e le storie contenute nei Veda è immediatamente comprensibile in tutto il subcontinente indiano.

Culto
Le pratiche devozionali hanno l'obiettivo di sviluppare un profondo e personale legame di amore con il divino (Bhakti) attraverso una delle sue forme, e spesso prevedono l'uso di murti. Alcuni induisti, tuttavia, rifiutano l'adorazione di immagini.

L'adorazione delle murti viene comunemente considerata al pari dell'idolatria da molti fedeli del Giudaismo, del Cristianesimo e dell'Islam. Questa visione, che identifica il concetto di murti con quello di idolo, non può applicarsi al pensiero induista e non si riflette nella filosofia vedica. Il concetto di adorazione delle murti è estremamente più vicino a quello delle icone, e consiste nella venerazione dell'immagine / statua in quanto simbolo di un ideale o principio superiore, piuttosto che “materializzare” la Divinità e considerare divino l'oggetto stesso.
Le immagini degli dei non devono essere confuse con gli stessi Dei, ma rispecchiano l'idea astratta del Deva, che si rivolge al devoto e rivela la divinità.

La sacralità della murti
La murti viene realizzata seguendo le indicazioni dello Shilpa Shastra, e quindi viene installata dai sacerdoti attraverso una cerimonia chiamata Prana Pratistha. Dopo questo processo la divina personalità diviene situata nella murti, ma in casi di serie discrepanze nell'adorazione può abbandonare questa forma fisica.

Con il sostantivo femminile hindi Ārtī (devanāgarī: आरती; anche Āratī; dal sanscrito: Ārātrika) si indica quel rituale durante il quale la luce emessa da una o cinque fiamme di canfora viene offerta alla divinità, o a uno dei suoi aspetti, attraverso le mūrti. Corrisponde quindi all'adorare tale divinità per mezzo della luce.

Nel caso di cinque luci esse simboleggiano i cinque elementi della terra, dell'aria, del fuoco, dell'acqua e dell'etere, rappresentando quindi la totalità del Cosmo.

Le luci vengono mosse con una rotazione in senso orario davanti all'immagine della divinità.

Arathi può anche indicare il canto devozionale che tradizionalmente viene intonato durante questo rituale. L'Arathi viene eseguito solitamente al mattino e alla sera, e come conclusione di una pūjā o di una sessione di bhajan; l'Arathi ne rappresenta il momento culminante.
https://it.wikipedia.org/wiki/%C4%80rt%C4%AB
L'offerta della fiamma di canfora ha un preciso significato simbolico: poiché arde senza lasciare residui, essa rappresenta l'ego che, una volta raggiunta la realizzazione spirituale, scompare senza lasciare alcuna traccia.

Un buddha (in italiano anche budda) è, secondo il Buddhismo, un essere che ha raggiunto il massimo grado dell'illuminazione (bodhi).
https://it.wikipedia.org/wiki/Buddha
In sanscrito e pāli Buddha (बुद्ध); cinese Fotuo (佛陀S, FótuóP), abbreviato Fó (佛S); giapponese Butsuda (仏陀?) abbreviato Butsu (仏?); coreano Bulta (불타) abbreviato Bul (불); vietnamita Phật-đà abbreviato Phật - tibetano Sangs-rgyas. Buddha è il participio passato del sanscrito budh, prendere conoscenza, svegliarsi. Buddha significa quindi "risvegliato", con riferimento al passaggio della coscienza dalla condizione di sonno (ὕπνος, hýpnos) alla condizione di piena realizzazione.

Unjivanmukta, che letteralmente significaliberato mentre si vive,[1] è una persona che, nella filosofiaVedanta, ha acquisito completa conoscenza di sé eautorealizzazionee ha raggiuntokaivalyaomoksha (illuminazione e liberazione), quindi è liberata mentre è in vita e non è ancora morta. [2][3] Lo stato è lo scopo delmoksha nelVedanta, nello Yogae in altre scuole dell'Induismo, ed è indicato comejivanmukti (Liberazione o Illuminazione). [4][5][6]

I Jivanmuktasono anche chiamati atma-jnani (auto-realizzati) perché sono conoscitori del loro vero sé (atman) e del sé universale, quindi chiamato ancheBrahma-Jnani. Alla fine della loro vita, i jivanmuktadistruggonoil karmarimanente e raggiungono Paramukti (liberazione finale) e diventanoParamukta. Quando un jivanmukta dà la sua visione agli altri e insegna loro la sua realizzazione della vera natura della realtà ultima (Brahman) e del sé (Atman) e assume il ruolo di un guru per mostrare il sentiero di Moksha agli altri, allora queljivanmuktaè chiamato avadhuta e alcuniavadhutaraggiungono anche il titolo diParamhamsa. Quando un rishi (saggio veggente) diventa unjivanmukta, allora quelrishi è chiamatoBrahmarshi.

Alcuni esempi di jivanmuktas sono Mahavira, Buddha, Adi Shankaracharya, San Dnyaneshwar, Kabirdas, SriCaitanya Mahaprabhu, Ramakrishna Paramahansa, Ramana Maharshi, Vishwamitra, Vedanta Desika eSwaminarayan. Hanno realizzato il Sé (atman) cioè Diodurante la loro vita percorrendo il sentiero della puraSpiritualità. Hanno raggiunto lo stadio dell'Illuminazione, della Realizzazione del Sé, della Realizzazione di Dio, del jivanmukti, dell'Atma-jnana (tutte le parole sono sinonimi). Hanno negato il karma a zero, per raggiungere lo stato di Jivan-Mukta. Dopo aver ottenuto l'illuminazione, hanno mantenuto il loro corpo, per diffondere il Jnana alle masse. Dopo aver lasciato il corpo, raggiunsero il Paramukti.
https://en.wikipedia.org/wiki/Jivanmukta
Jīvanmukta (जीवन्मुक्त) è un aggettivo derivato da una combinazione del sostantivosanscritoजीवjīva, "vita", e il participio passato del verbo मुच् (molto, o IAST muc), "liberare". Monier-Williams dà il significato di "emancipato mentre era ancora vivo".

Jīvanmukti (जीवन्मुक्ति), il corrispondente sostantivo astratto significa "liberazione durante la vita, liberazione prima della morte",[7][8] o "emancipazione mentre è ancora in vita". [9][6]Questo è l'unico significato dato nei dizionari autorevoli del sanscrito classico, incluso Monier-Williams. Altre traduzioni, non presenti nei dizionari standard e quindi presumibilmente di data più moderna, includono "autorealizzazione",[10][11][12]"liberazione vivente", "illuminazione", "anima liberata" o "autoliberazione". [13][14][15]

Descrizione
Articolo principale:Moksha
I vari testi e scuole dell'induismo descrivono lo stato diesistenza jivanmukticome uno stato di liberazione e libertà raggiunta all'interno della propria vita. [16][17]Alcuni contrappongonojivanmuktiavidehamukti (moksha dal samsara dopo la morte). [18] Jivanmukti è uno stato che trasforma la natura, gli attributi e i comportamenti di un individuo, affermano questi antichi testi della filosofia indù. Ad esempio, secondo Naradaparivrajaka Upanishad, l'individuo illuminato mostra attributi come:[19]

la sua coscienza dell'individualità è scomparsa;
non è infastidito dalla mancanza di rispetto e sopporta parole crudeli, tratta gli altri con rispetto indipendentemente da come gli altri lo trattano;
di fronte a una persona arrabbiata non restituisce rabbia, ma risponde con parole dolci e gentili;
anche se torturato, parla e si fida della verità;
non brama benedizioni né si aspetta lodi dagli altri;
non ferisce o danneggia mai alcuna vita o essere (ahimsa), è intento nel benessere di tutti gli esseri; [20]
si sente a suo agio a stare da solo come in presenza degli altri;
è a suo agio con una ciotola, ai piedi di un albero in veste lacera senza aiuto, come quando è in unmithuna (unione di mendicanti), grama (villaggio) e nagara (città);
Non gli importa o indossa ilsicha (ciuffo di capelli sulla parte posteriore della testa per motivi religiosi), né il filo sacro sul suo corpo. Per lui, la conoscenza è sikha, la conoscenza è il filo sacro, solo la conoscenza è suprema. Le apparenze esteriori e i rituali non gli importano, conta solo la conoscenza;
Per lui non c'è invocazione né licenziamento delle divinità, nessun mantra né non-mantra, nessuna prostrazione né adorazione di dei, dee o antenati, nient'altro che conoscenza;
È umile, di buon umore, di mente chiara e ferma, diretto, compassionevole, paziente, indifferente, coraggioso, parla con fermezza e con parole dolci.
Vista Advaita
Adi Shankara spiega che nulla può indurre ad agire chi non ha alcun desiderio di soddisfare. Il limite supremo delvairagya ("distacco"), è il non-molleggio divasanarispetto agli oggetti piacevoli; il non-scaturimento del senso dell'"io" (nelle cose che sonol'ānatman) è il limite estremo dibodha ("risveglio"), e il non-scaturimento delle modificazioni che sono cessate è il limite estremo diUparati ("astinenza"). Il jivanmukta ottiene la conoscenza divina e infinita e ha completa conoscenza di sé e realizzazione del Sé, un jivanmukta a causa del suo essere sempre Brahman, è liberato dalla consapevolezza degli oggetti esterni e non più consapevole di alcuna differenza tra l'atman interiore e Brahman e tra Brahman e il mondo, sa di essere uguale a Brahman e ha una coscienza infinita sempre sperimentata. "Vijnatabrahmatattvasya yathapurvam na samsrtih" – "non c'èsaṃsāracome prima per chi ha conosciuto Brahman". [21]

Ci sono tre tipi dikarma prarabdha: Ichha ("desiderato personalmente"), Anichha ("senza desiderio") eParechha ("dovuto al desiderio degli altri"). Per una persona autorealizzata, un Jivanamukta, non c'èIchha-Prarabdhama gli altri due, AnichhaeParechha, rimangono,[22] che anche un jivanmukta deve subire. [22][23] Secondo la scuolaAdvaita, per coloro che hanno saggezzaPrarabdhaè liquidato solo dall'esperienza dei suoi effetti; Sancita ("karma accumulati") eAgami ("karma futuri") vengono distrutti nel fuoco diJnana ("conoscenza"). [21]

Il termine Paramukti è comunemente usato per riferirsi alla liberazione finale, che si verifica alla morte del corpo di qualcuno che ha raggiuntoJivanmuktio Kaivalya durante la sua vita. Implica la liberazione definitiva dell'anima (atman) dal Saṃsāra e dal karma e la fusione dell'atman nelBrahman, così quando un jivanmukta muore diventa unParamukta. Nella visione indù, quando una persona comune muore e il suo corpo fisico si disintegra, il karma irrisolto della persona fa sì che il suo atman passi a una nuova nascita; E così l'eredità karmica rinasce in uno dei tanti regni delSamsara. Tuttavia, quando una persona raggiunge Jivanmukti, viene liberata dalla rinascita karmica. Quando una tale persona muore e il suo corpo fisico si disintegra, il suo ciclo di rebirthing termina e diventa tutt'uno con Brahman, allora si dice che quella persona abbia raggiunto Paramukti e sia diventata unParamukta, quindi, un jivanmukta ha un corpo mentre un Paramukta è senza corpo e puro. Quando un jivanmukta raggiunge lo stato diNirvikalpaSamadhi, allora lui o lei può diventare un Paramukta per sua volontà. Un jivanmukta che ha raggiunto lo stato di nirvikalpa samadhi, al momento opportuno, uscirà consapevolmente dal proprio corpo e raggiungerà Paramukti. Questo atto di lasciare consapevolmente e intenzionalmente il proprio corpo è chiamatoMahasamadhi.

Nelle tradizioniśramaṇic, il jivanmukta è chiamatoarhatnel buddismo[24] earihantnel giainismo. [senza fonte]

Implicazione
La scuola Advaita sostiene che l'apparenza del mondo è dovutaall'avidya (ignoranza) che ha il potere di proiettare cioè di sovrapporre l'irreale al reale (adhyasa), e anche il potere di nascondere il reale risultante nell'illusione delJivache sperimenta oggetti creati dalla sua mente e vede la differenza in questo mondo, vede la differenza tral'ātman ("il sé individuale") eil Brahman ("il Sé supremo"). Questa illusione causata dall'ignoranza viene distrutta quando l'ignoranza stessa viene distrutta dalla conoscenza. Quando ogni illusione viene rimossa, non rimane alcuna consapevolezza della differenza. Si dice che colui che non vede alcuna differenza tra il Sé e il Brahman sia un jivanmukta. Jivanmukta sperimenta la conoscenza infinita, il potere infinito e la beatitudine infinita mentre è vivo e anche dopo la morte, cioè dopo essere diventato Paramukta, mentre Videhmukta sperimenta questi solo dopo la morte. Ci sono quattro fasi per diventare un jivanmukta:

1.Sālokya– vivere nello stesso mondo

2.Sārūpya – avente la stessa forma

3.Sāmīpya – essere vicino a

4.Sāyujya– fusione in[25]

FASE 1. Il primo stadio è chiamato sālokya – corrispondente allo stato di veglia della coscienza (jāgrata) – la realizzazione che l'intero vasto universo di miliardi di galassie e universi è tutto pervaso dalla Coscienza Divina. (Viṣṇu significa Ciò che pervade l'intero universo e tutto ciò che è in esso.) È l'Oceano indifferenziato dell'Essere. Quando questo stadio viene raggiunto, allora la persona ottiene la libertà dall'idea che il mondo è separato e indipendente da noi ed è una fonte ultima di piacere e gioia duraturi.

FASE 2. Il secondo stadio è sarūpya o sadhārmya – corrispondente allo stato di coscienza sognante – la realizzazione che ogni essere è interconnesso e tutte le jiva "apparentemente" separate sono incarnazioni dell'Unica Coscienza Divina. Quando questo stadio viene raggiunto, allora la persona ottiene la libertà da ahaṅkāra - la nozione di identità di sé e la nozione di differenza e l'altro, essendo così in grado di coltivare l'empatia con tutti e la compassione universale per tutti gli esseri.

FASE 3. Il terzo stadio samīpya – è l'intimità con il Divino – corrispondente allo stato inconscio di coscienza senza sogni – la realizzazione di Dio avviene quando la natura del saguṇa īśvara è riconosciuta e ci si arrende a Lui/Lei. Quando questo stadio viene raggiunto, allora la persona ottiene la libertà da ogni sforzo personale per raggiungere la liberazione, la libertà dalla religione e dalla sua schiavitù e l'abbandono di tutti i fardelli autoimposti – raggiungendo uno stato di equanimità, tranquillità, gioia duratura e pace.

FASE 4. Lo stadio finale sāyujya – comunione o unificazione con la Divinità Assoluta – corrispondente al Turiya o inconcepibile e inesprimibile quarto stato di coscienza – una fusione con la Divinità che confina con la completa identità. Quando questo stadio viene raggiunto, allora la persona diventa un jivanmukta completo e ottiene l'assoluta libertà dalla rinascita e dalla sofferenza — questa è la fase finale di Brahma-nirvāna.

Significato
La filosofia Advaita poggia sulla premessa chenoumenicamenteesiste solo l'Assoluto, la Natura, le Anime e Dio sono tutti fusi nell'Assoluto; l'Universo è uno, che non c'è differenza al suo interno, o senza di esso; Brahman è simile in tutta la sua struttura, e la conoscenza di qualsiasi parte di esso è la conoscenza del tutto (Brihadaranyaka UpanishadII.4.6-14), e, poiché tutta la causalità è in definitiva dovuta al Brahman, poiché tutto ciò che è al di fuori del Brahman è un'apparenza, l'Atman è l'unica entità che esiste e nient'altro. Tutti gli elementi emanati dall'Atman (TaittiriyaUpanishad II.1) e tutta l'esistenza è basata sull'Intelletto (Aitareya UpanishadIII.3). L'universo creato da Brahman da una parte di se stesso viene espulso e riassorbito dal Brahman Immutabile (Mundaka UpanishadI.1.7). Pertanto, il Jiva (il sé individuale) non è diverso dalBrahman (il Sé supremo), e ilJiva, mai legato, è sempre liberato. Attraverso l'autocoscienza si acquisisce la conoscenza dell'esistenza e si realizza il Brahman

Bhakti (devanagari भक्ति) è un termine sanscrito che nelle tradizioni religiose dell'India indica l'aspetto devozionale della fede[1] in una divinità personale o anche un maestro spirituale, caratterizzato spesso da una partecipazione emotiva intensa e totalizzante. "La via della bhakti" (bhaktimarga[2] o anche Bhakti Yoga) è, in molte di queste tradizioni, uno dei mezzi per ottenere la liberazione (mokṣa).
https://it.wikipedia.org/wiki/Bhakti
«Colui il quale possiede la massima fede [bhakti] nel Dio, e come nel Dio così ha nel guru, per costui splendono le verità qui esposte, per costui il quale è un Grande Spirito. Oṃ! Tat sat. Oṃ!»
«Che ragione c'è di cantare i Veda? Capire i Commentari? Praticare quotidianamente la legge morale? Imparare un Anga o tutti e sei? – Portare il Signore nel proprio cuore, questo solo procura la salvezza.»

Mantra (devanāgarī: मन्त्र) è un sostantivo sanscrito maschile (raramente neutro) che indica, nel suo significato proprio, il "veicolo o strumento del pensiero o del pensare" ovvero un'"espressione sacra", e corrisponde a un verso del Veda, a una formula sacra indirizzata ad un deva, a una formula mistica o magica, a una preghiera, a un canto sacro o a una pratica meditativa e religiosa.

La nozione di mantra ha origine dalle credenze religiose dell'India ed è propria delle culture religiose che vanno sotto il nome di Vedismo, Brahmanesimo, Buddhismo, Giainismo, Induismo e Sikhismo.
https://it.wikipedia.org/wiki/Mantra
Il termine mantra deriva dall'insieme di due termini: il verbo sanscrito man (VIII classe, nella sua accezione di "pensare", da cui manas: "pensiero", "mente", "intelletto" ma anche "principio spirituale" o "respiro", "anima vivente") unito al suffisso tra che corrisponde all'aggettivo sanscrito kṛt, ("che compie", "che agisce").

Un'etimologia tradizionale fa invece derivare il termine mantra sempre dal verbo man ma collegato al sanscrito tra che, in fine compositi, diviene aggettivo con il significato "che protegge", quindi "pensare, pensiero, che offre protezione".

In altre lingue asiatiche, il termine sanscrito mantra viene così reso:

in cinese: 曼憺羅 màndáluó, ma anche 眞言 zhēnyán;
in giapponese 眞言 shingon;
in coreano 진언 jin-eon;
in vietnamita chân ngôn;
in tibetano botswanaghana.

Il mantra nelle culture religiose vedica e brahmanica
Nella più antica letteratura vedica, il Ṛgveda, il mantra ha essenzialmente il significato e la funzione di "invocazione" ai deva per ottenere la vittoria in battaglia, beni materiali oppure una lunga vita

(SA)
«śatamin nu śarado anti devā yatrā naścakrā jarasaṃ tanūnām putrāso yatra pitaro bhavanti mā no madhyā rīriṣatāyurghantoḥ»

(IT)
«Ci stan davanti cento anni, o dèi, entro i quali avete stabilito la consunzione dei nostri corpi per vecchiaia, entro i quali i nostri figli diventano padri: non colpite il corso della nostra vita a metà del suo cammino.»

(Ṛgveda, I,89,9.)
In tale accezione, l'inno vedico, o mantra, se è metrico e viene recitato a voce alta è indicato come ṛk (e raccolto nel Ṛgveda), se invece è in prosa e mormorato è uno yajus (e raccolto nello Yajurveda), se corrisponde ad un canto è un sāman (e raccolto nel Sāmaveda).

I mantra appartenenti al Ṛgveda venivano quindi recitati ad alta voce dal sacerdote vedico indicato come hotṛ, quelli appartenenti al Sāmaveda venivano intonati dallo udgātṛ (ruolo particolare aveva questo sacerdote e i mantra da lui intonati nel sacrificio del soma), mentre quelli appartenenti allo Yajurveda venivano mormorati dall' adhvaryu (sacerdote che ricopriva un ruolo preminente nel periodo dei Brāhmaṇa)[5]. Ogni particolare rito sacrificale (Yajña) richiedeva un'accurata scelta dei mantra necessari, e il loro precipuo scopo era quello di entrare in comunicazione con la o le divinità (deva) prescelte.

Essendo i Veda tradizionalmente intesi come non composti da esseri umani (apauruṣeya) bensì trasmessi ai "cantori" delle origini (ṛṣi) all'alba dei tempi, i versi ivi contenuti furono quindi considerati dalle tradizioni induiste, come mantra "increati" ed "eterni" che mostravano la vera natura del cosmo.

I testi risalenti alla fine del secondo millennio a.C. e inerenti al Sāmaveda, mostrano come l'importanza di questi mantra non risiedesse tanto nel loro significato quanto piuttosto nella loro sonorità. Molti di essi risultano infatti non traducibili e non comprensibili e furono indicati come stobha. Esempio di stobha sono le parole bham o bhā che vengono intonate nel contesto dei versi del Sāmaveda. Successivamente, nei Brāhmaṇa, il mantra mormorato (upāṃśu) fu considerato superiore a quello enunciato o intonato, e ancora maggiormente superiore il verso silenzioso (tuṣṇīm) o mentale (mānasa).[6] In particolare nel Śatapatha Brāhmaṇa[7] ciò che non è possibile definire e che non è manifesto (anirukta) rappresenta l'illimitato e l'infinito: queste considerazioni contenute nei Brāhmaṇa forniranno la base teologica delle successive dottrine sulla natura e sulla funzione dei mantra.

Nella tradizione successiva divenne quindi poco importante per coloro che studiavano i Veda conoscerne il significato quanto piuttosto fu sufficiente memorizzare meticolosamente il testo, con particolare riguardo alla pronuncia e alla sua accentazione. Ciò produsse, a partire dal VI secolo a.C., una serie di opere, che vanno sotto il nome collettivo di Prātiśakhya, sulla fonetica e sulla retta pronuncia (śikṣa) propria dei Veda e per questo collocati all'interno del Vedaṅga (membra, aṅga, dei Veda).

I mantra nell'Induismo e nelle tradizioni tantriche
La vita di un devoto hindu è pervasa dalla recitazione dei mantra, pratica che lo accompagna in vari momenti della vita e del quotidiano per fini che sono sia sacri (rituali o soteriologici) sia profani (utilitaristici o anche magici), come per esempio: ottenere la liberazione (mokṣa); onorare le divinità (pūjā); acquisire poteri sovrannaturali (siddhi); comunicare con gli antenati; influenzare le azioni altrui; purificare il corpo; guarire dai mali fisici; assisterlo nei riti; eccetera[8]. Ogni mantra va usato nel modo corretto e, a seconda del modo, può dare differenti risultati:

«I mantra 'comprovati' danno risultati sicuri entro un tempo determinato. I mantra 'che aiutano' danno buoni risultati se vengono ripetuti nel rosario, o se li si impiega per accompagnare le oblazioni. I mantra 'realizzati' danno risultati immediati. I mantra 'nemici' distruggono quelli che vogliono usarli.»

(Mantra-Mahodadhi, 24-23, citato in A. Daniélou, Miti e dei dell'India, Op. cit., p. 381)
Questi usi e forme dei mantra non appartengono alla tradizione vedica, dove, come si è detto, il mantra era un inno recitato dal brahmano durante le cerimonie liturgiche, utilizzato quindi per invocare la divinità o influire magicamente sul mondo, ma sono successivi. È soprattutto nell'ambito tantrico (sia induista sia buddhista) che i mantra si sono diffusi e hanno acquisito quei caratteri che oggi in India è dato di cogliere. Nelle tradizioni tantriche i mantra associati alle divinità sono considerati la forma fonica della divinità stessa. Altri mantra rappresentano, per esempio, parti del corpo o del cosmo.

La pratica dei mantra
Un mantra, rigorosamente in lingua sanscrita, può essere recitato ad alta voce, sussurrato o anche solo enunciato mentalmente, nel silenzio della meditazione, ma sempre con la corretta intonazione, pena la sua inefficacia. Va inoltre evidenziato che un mantra non lo si può apprendere da un testo o da generiche altre persone, ma viene trasmesso da un guru, un maestro cioè che consacri il mantra stesso, con riti che non sono dissimili dalla consacrazione delle icone.

L'atto di enunciare un mantra è detto uccāra in sanscrito; la sua ripetizione rituale va sotto il nome di japa, e di solito è praticata servendosi dell'akṣamālā, un rosario risalente all'epoca vedica. Ci sono mantra che vengono ripetuti fino a un milione di volte:

«Ogni ripetizione indefinita conduce alla distruzione del linguaggio; in alcune tradizioni mistiche, questa distruzione sembra essere la condizione delle ulteriori esperienze.»

(Mircea Eliade, Lo Yoga, a cura di Furio Jesi, BUR, 2010; p. 207)
Un aspetto importante nell'uccāra è il controllo della respirazione. Frequente, soprattutto nelle tradizioni tantriche, è l'accompagnamento del japa con le mudrā, gesti simbolici effettuati con le mani, e con pratiche di visualizzazione. Uno dei significati di uccāra è "movimento verso l'alto", e difatti nella visualizzazione interiore il mantra è immaginato risalire nel corpo del praticante lungo lo stesso percorso della kuṇḍalinī, l'energia interiore.

I bīja
I bīja ("seme") sono monosillabi che generalmente non hanno un significato semantico, o lo hanno perso nel corso del tempo, ma vanno interpretati come suoni semplici atti a esprimere o evocare particolari aspetti della natura o del divino, e ai quali sono attribuiti funzioni specifiche e interpretazioni che variano di scuola in scuola. Spesso questi "semi verbali" sono combinati fra loro a costituire un mantra, oppure adoperati come mantra essi stessi (bījamantra). Alcuni fra i più noti sono:

AUṂ: è il bīja più noto, l'oṃ, comune a tutte le tradizioni. Considerato il suono primordiale, forma fonica dell'Assoluto, è utilizzato sia come invocazione iniziale in moltissimi mantra, sia come mantra in sé. Le lettere che compongono il bīja sono A, U ed Ṃ: nella recitazione A ed U si fondono in O, mentre la Ṃ terminale viene nasalizzata e prolungata fonicamente e visivamente. La recitazione dell'OṂ è molto comune, ed è considerata di grande importanza: numerosi testi citano e argomentano su questo mantra.
AIṂ: la coscienza. È associato alla dea Sarasvatī, dea del sapere.
HRĪṂ: l'illusione. È associato alla dea Bhuvaneśvarī, distruttrice del dolore.
ŚRĪṂ: l'esistenza. È associato alla dea Lakṣmī, dea della fortuna.
KLĪṂ: il desiderio. È associato al dio Kama, dio dell'amore, ma rivolto anche a Kālī, la distruttrice.
KRĪṂ: il tempo. È associato alla dea Kālī.
DUṂ: la dea Durgā.
GAṂ: il dio Ganapati.
HŪṂ: protegge dalla collera e dai demoni.
LAṂ: la terra
VAṂ: l'acqua
RAṂ: il fuoco
YAṂ: l'aria
HAṂ: l'etere
Nella Yogattatva Upaniṣad i suddetti bīja, corrispondenti ai cinque elementi cosmici, vengono messi in relazione con le "cinque parti" del corpo: dalle caviglie alle ginocchia: terra; dalle ginocchia al retto: acqua; dal retto al cuore: fuoco; dal cuore al punto fra le sopracciglia: aria; da quest'ultimo alla sommità del capo: etere.

SAUḤ: il cuore, simbolo dell'energia divina nella sua origine, seme dell'universo, così come scritto nel Tantrāloka di Abhinavagupta: S è sat ("l'essere"); AU è l'energia cosmica che anima la manifestazione; Ḥ è la capacità di emissione di Śiva. Il mantra simboleggia quindi la manifestazione del cosmo presente in potenza in Dio, la sua immanenza nel mondo.
Infine, i cinquanta fonemi dell'alfabeto sanscrito possono essere utilizzati come mantra essi stessi, singolarmente o variamente combinati; ogni fonema può corrispondere a una divinità. Occorre infatti ricordare che secondo quelle dottrine hindu che considerano il mondo increato, ogni suo aspetto già esiste in potenza nei primordi del suo svilupparsi, fonemi e parole non escluse. La parola oltrepassa qui il campo d'interesse della grammatica o della fonetica, per diventare oggetto di studio metafisico e religioso. È la parola nella sua accezione più ampia, la parola cosmica. Si può quindi comprendere come alcune parole e alcuni suoni possano avere la proprietà di interagire con altri aspetti del mondo. Ed è qui che va colto il senso della potenza dei mantra.
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Alcuni mantra
Rudra mantra
ॐ त्र्यम्बकम् यजामहे सुगन्धिम् पुष्टिवर्धनम् ।उर्वारुकमिव बन्धनान् मृत्योर्मुक्षीय मामृतात्
Oṃ tryambakaṃ yajāmahe sugandhiṃ puṣṭivardhanam urvārukam iva bandhanān mṛtyor mukṣīya māmṛtāt
"Veneriamo il Signore dai tre occhi, profumato, che dà la forza e la libera dalla morte. Possa liberarci dai legami della morte."

Il mantra è rivolto a Śiva nel suo aspetto distruttivo, Rudra, ed è un'esortazione il cui scopo è di allontanare la morte, nel senso di prevenire l'invecchiamento. Si ritrova per esempio nei testi: Mahānirvāna Tantra (5, 211); Uddīsha Tantra (94).[19]

Gāyatrī mantra
ॐ भूर्भुवस्व: | तत् सवितूर्वरेण्यम् | भर्गो देवस्य धीमहि | धियो यो न: प्रचोदयात्
Oṃ bhūr buvaḥ svaḥ | tat savitur vareṇyaṃ | bhargo devasya dhīmahi | dhiyo yo naḥ pracodayāt
"Sfera terrestre, sfera dello spazio, sfera celeste! Contempliamo lo splendore dello spirito solare, il creatore divino. Possa egli guidare i nostri spiriti [verso la realizzazione dei quattro scopi della vita]."

Composto di dodici più dodici sillabe, è ripetuto dodici volte il mattino, il mezzogiorno e la sera. Il suo uso è vietato alle donne e agli uomini di casta bassa. Si ritrova per esempio nei: Ṛgvedasaṃhitā (III, 62, 10); Chāndogya Upaniṣad (3,12); Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (5, 15).[20]

Oṃ Maṇi Padme Hūṃ
ॐ मणि पद्मे हूँ
Om Mani Peme Hung o Om Mani Beh Meh Hung in tibetano
"Salve o Gioiello nel fiore di Loto"
È il mantra di Cenresig, il Buddha della Compassione e protettore di chi è in imminente pericolo. Questo mantra viene raccomandato in tutte le situazioni di pericolo o di sofferenza, o per aiutare gli altri esseri senzienti in condizioni di dolore. Uno dei suoi significati più tenuti in considerazione è la collocazione del Gioiello, simbolo della bodhicitta, nel Loto, simbolo della coscienza umana. Ha altresì il potere di sviluppare la compassione, grande virtù contemplata dal Buddhismo.[21]

Mantra rāja
Śrīṃ Hrīṃ Klīṃ Kṛṣṇāya Svāhā
"Fortuna, Illusione, Desiderio, Offerta al dio oscuro."

Il dio oscuro è Kṛṣṇa, con riferimento al colore della sua pelle. Il mantra invoca tre aspetti del dio, e ha come scopo di ispirare l'amore divino.[19]

Mantra rivolto alla Dea suprema (Parā Śakti)
Auṃ Krīṃ Krīṃ Hūṃ Hūṃ Hrīṃ Hrīṃ Svāhā

Lo scopo di questo mantra è generico, viene recitato per ottenere qualsiasi realizzazione. Presente, ad esempio nei: Karpūradi Stotra (5); Karpura-stava (5).[22]

Śiva panchākśara mantra
ॐ नम: शिवाय
Oṃ namaḥ Śivāya
"Io mi inchino davanti a Śiva."

È il mantra principale nelle correnti devozionali śaiva. Composto di cinque sillabe (panchākśara vuol dire appunto "cinque sillabe", e cinque è il numero sacro di Śiva), viene ripetuto in genere 108 volte, o anche 5 volte tre volte al giorno. È contenuto in molti testi, fra i quali, ad esempio, lo Śiva Āgama, lo Śiva Purāṇa.[23]

Netra mantra
Oṃ Juṃ Saḥ
È detto anche "il mantra dell'occhio di Śiva", ed è citato nel Netra Tantra, cap. VII.[24]

Viṣṇu astākśara mantra
Auṃ namo Nārāyaṇaya
"Io mi inchino davanti a colui che dispensa sapere e liberazione."

Il mantra è rivolto a Visnù, essendo Nārāyaṇa appellativo del dio.[25]

Hare Kṛṣṇa mantra
Hare Kṛṣṇa Hare Kṛṣṇa | Kṛṣṇa Kṛṣṇa Hare Hare | Hare Rāma Hare Rāma | Rāma Rāma Hare Hare

Noto anche come Mahā mantra ("grande mantra"), è il mantra più noto delle correnti devozionali krishnaite, molto conosciuto anche in Occidente a partire dagli anni sessanta per opera della International Society for Krishna Consciousness (ISKCON) (nota più familiarmente come "gli Hare Krishna"), associazione religiosa statunitense di devoti a Kṛṣṇa fondata nel 1966 in New York.[26] Hare è uno degli appellativi di Viṣṇu, Rāma è il settimo avatāra di Viṣṇu; l'intonazione del mantra è considerata dai fedeli come il metodo più semplice per esprimere l'amore di Dio, Kṛṣṇa medesimo, completa manifestazione di Īśvara.

Mudra (devanagari: मुद्रा, IAST mudrā) è un gesto simbolico che in varie religioni viene usato per ottenere benefici sul piano fisico, energetico e/o spirituale.

Le mudra sono utilizzate nella pratica yoga come completamento di alcuni asana (posizioni) durante le fasi meditative. Le mudra vengono usate molto nel buddhismo tibetano, anche sotto forma di movimenti, gesti, danze che vanno a completare tecniche, pratiche e meditazioni atte al raggiungimento dell'illuminazione. Le mudra vengono praticate anche durante le cerimonie come ad esempio nelle cerimonie di iniziazione.
https://it.wikipedia.org/wiki/Mudra
Definizione del termine
Vi sono molte opinioni in merito all'interpretazione del termine “mudrā”; gli studiosi sostengono l'interpretazione legata all'origine etimologica del vocabolo, che identifica la posa della mano come un “sigillo”, una “stampa”, un “segno”, un “marchio”, un “simbolo”, un “gesto simbolico” oltre ad identificare nell'esoterismo, le varie divinità.

Origine
In un racconto contenuto nei Jātaka si narra di un bodhisattva che vedendo una donna, fece un gesto per sapere se era sposata. La donna rispose sempre con un gesto che non aveva marito. È evidente che il bodhisattva stava usando un linguaggio stabilito e convenzionale di gesti eseguiti con le mani. Le mudrā erano quindi espressione di un linguaggio quotidiano, ma non solo; in seguito, esse hanno trovato la loro sistemazione anche nella danza, nello specifico nel Nātya Śāstra di Bharata.

Origine Iconografica
La mudrā passa così da una funzione di linguaggio gestuale quotidiano ad una di esperimento di comunicazione simbolica in ambito artistico, e in seguito si trasforma da icona figurativa ad elemento rituale di cerimonie esoteriche. Attraverso le figure di Mathurā (100 a.C. – 600 d.C.) e soprattutto con le sculture del Gandhāra (100 – 400 d.C.) le mudrā diedero un grande contributo al tantrismo. Nel II secolo d.C., vi è la prima raffigurazione del buddha storico, fino ad allora era stato rappresentato come ruota della Legge, trono, colonna o albero.

Mudra nella Gheraṇḍa Saṃhitā
Nell'antico testo della Gheraṇḍa Saṃhitā sono presenti 25 mudra fondamentali:

«Mahāmudrā, Nabhomudra, Uddiyanamudra, Jalandharamudra
Muhlabandhamudra, Mahabandhamudra, Mahavedhamudra, e Kecharimudra
Viparitakaranimudra, Yonimudra, Vajrolimudra, Shaktichalani e Tadagimudra,
Mandukimundra, Shambhavimudra, i cinque Dharana e Ashvinimudra
Pashinimudra, Kakimudra, Matangimudra e Bhujanginimudra: queste 25
mudra garantiscono agli yogin il successo in questo mondo»

(Gheraṇḍa Saṃhitā)
Mahāmudrā
Nabhomudra
Uddiyanamudra
Jalandharamudra
Muhlabandhamudra
Mahabandhamudra
Mahavedhamudra
Kecharimudra
Viparitakaranimudra
Yonimudra
Vajrolimudra
Shaktichalani
Tadagimudra
Mandukimundra
Shambhavimudra
Dharana n.1
Dharana n.2
Dharana n.3
Dharana n.4
Dharana n.5
Ashvinimudra
Pashinimudra
Kakimudra
Matangimudra
Bhujanginimudra
Mudra nell'Hatha Yoga Pradipika
Nell'antico testo Hatha Yoga Pradipika, sono elencate 10 mudra fondamentali:

«Mahāmudrā, Mahabandha, Mahavedhamudra, Kecharimudra, Uddiyanabandhamudra,
Mulabandhamudra, Jalandharabandhamudra, Viparitakaranimudra, Vajrolimudra e Shaktichalanamudra
sono le dieci mudra distruttrici della vecchiaia e della morte.

Rivelate da Shiva celeste, conferenti gli otto poteri,
care al cuore di tutti gli uomini di potenza,
sono difficili da eseguire anche per i saggi.»

(Hatha Yoga Pradipika)
Mahāmudrā
Mahabandhamudra
Mahavedhamudra
Kecharimudra
Uddiyanabandhamudra
Mulabandha
Jalandharabandha
Viparitakaranimudra
Vajrolimudra
Shaktichalanamudra
Mudra nella religione buddhista
I portamenti Mudra sono sei, rappresentate nella tabella qui sotto.
Posizione Accezione
Abhayamudra Buddha è in piedi con il palmo della mano destra girato verso l′esterno e le dita verso il cielo, di solito all′altezza delle spalle. Vuol significare la protezione dei suoi seguaci dalle loro paure.
Varadamudra Buddha ha la mano sinistra sulla gamba con il palmo verso l′alto e le dita verso il basso, come per offrire qualcosa. L′altra mano è in posizione Abhayamudra.
Bhumisparshamudra Di solito si trova sul Buddha seduto: la mano destra è deposta sulle gambe con le dita in direzione della terra e il palmo vero l′interno. La mano sinistra, aperta, è posta sul ventre rivolta verso l′alto. Vuol simboleggiare la volontà di raggiungere l′illuminazione per mezzo della meditazione.
Dharmachakramudra Buddha unisce i due pollici e i due indici delle mani formando un cerchio, simbolo della ruota del Dharma.
Vitarkamudra il pollice e l′indice della stessa mano si toccano e formano un cerchio che fa scaturire l′energia, trasmettendo i suoi insegnamenti.
Dhyanamudra È il gesto della meditazione, spesso si trova sul Buddha seduto. Le mani sono poste sul ventre con i palmi rivolti verso l′alto, la mano destra si appoggia sulla sinistra e i pollici si sfiorano tra loro, formando una specie di triangolo, segno del fuoco spirituale che brucia le impurità.
Altri mudra
Abhayamudrā (semui in 施無畏印)
Adhimudra
Bhumisparsamudra (sokuchi in 觸地印): rappresenta il gesto della testimonianza della terra
Bodhyagrimudra : rappresenta il gesto di somma illuminazione
Chinmudrā : rappresenta il gesto della coscienza
Dhyanamudra (jō in 定印): rappresenta il gesto della meditazione
Jnanamudra: rappresenta il gesto della conoscenza
Mandalamudra mudra: i quattro angoli del mondo
Varamudra (in giapponese segan in 施願印): il palmo della mano girato verso l'esterno, in un gesto di offerta. Aperta e vuota. Essa rappresenta sia la carità del buddha che l'espressione del vuoto.
Dharmacakramudrā (tenbōrin in 轉法輪印)
Yogamudra

Con il sostantivo maschile sanscrito yoga (devanāgarī: योग, adattato anche in ioga) nella terminologia delle religioni originarie dell'India si indicano le pratiche ascetiche e meditative.[2] Non specifico di alcuna particolare tradizione indù, lo Yoga è stato principalmente inteso come mezzo di realizzazione e salvezza spirituale, quindi variamente interpretato e disciplinato a seconda della scuola.

Tale termine sanscrito, con significato analogo, viene utilizzato anche in ambito buddhista e giainista. Come termine collegato alle darśana, yoga-darśana (dottrina dello yoga) rappresenta una delle sei darśana, ovvero uno dei "sistemi ortodossi della filosofia religiosa" indù. In epoca molto più recente, si è cercato di diffondere lo Yoga anche nel mondo occidentale
https://it.wikipedia.org/wiki/Yoga
Se dunque nei Veda, segnatamente nella Ṛgveda Saṃhitā, termini correlati al termine yoga hanno il compito di suggerire agli uomini di "imbrigliare" i propri sensi, pensieri e vissuti per dedicarli con talento alle attività religiose e spirituali[15], nelle successive Upaniṣad che tale termine inizia ad avere dei significati più precisi e tecnici.

È nella Kaṭha Upaniṣad, collegata al Kṛṣṇa Yajurveda, che il termine yoga compare per la prima volta.[16] Questa Upaniṣad del periodo medio, databile intorno al V sec. a.e.v., discostandosi dal clima dei grandiosi miti cosmogonici delle Upaniṣad antiche, si apre a speculazioni più specificamente filosofiche e psicologiche, preannunciando elementi che poi saranno sviluppati a fondo nelle successive darśana, le scuole interpretative dell'induismo.

«Il saggio, in seguito alla realizzazione dello yoga individuale (adhyātma yoga), avendo contemplato [in sé] il Dio che è difficile da vedere, che è sprofondato nel mistero, che giace nel cuore, che è riposto nella cavità, che è l'antico, abbandona il piacere e il dolore.»

(Kaṭha Upaniṣad, I.2.12,)
Śvetāśvatara Upaniṣad
Composta fra il IV e il II secolo a.e.v[17], questa Upaniṣad riveste un posto particolare, in quanto contempla temi che saranno propri del successivo induismo: l'aspetto teistico; la fede come devozione, la bhakti; il concetto di energia divina, la śakti, ossia la potenza creatrice del Dio, il suo aspetto immanente; lo Yoga.

Inizialmente lo Yoga è descritto come disciplina meditativa capace di realizzare la śakti, la potenza stessa divina (deva-ātma-śakti).[18] Nel secondo canto troviamo descrizioni sia di carattere tecnico sia riguardanti i segni che contraddistinguono il percorso dello yogin.

«A questo punto, avendo controllato i suoi soffi vitali e trattenuto il moto del respiro, allorché il prāṇa è raffrenato, espiri dal naso; come colui che conduce un veicolo trascinato da cavalli cattivi, così pure il saggio trattenga la sua potenza mentale senza distrarsi.»

(Śvetāśvatara Upaniṣad, II.9, traduzione di Pio Filippani Ronconi, in Upaniṣad antiche e medie, Torino, Boringhieri, 2007, p. 323)
Vi compaiono dunque precisi accenni al controllo della respirazione, respirazione collegata al prāṇa, il principio vitale inteso come "soffio"; e al dominio dell'attenzione inteso come capacità di non essere distratto, quindi di concentrarsi: elementi questi che ritroveremo entrambi nella successiva sistematizzazione dello Yoga classico. Degna di nota è infine la relazione fra Yoga e immortalità, lo Yoga cioè come disciplina salvifica.[19]

Maitrī Upaniṣad
L'ancora più tarda Maitrī Upaniṣad (o Maitrāyaṇīa Upaniṣad, composta fra II sec. a.e.v. e il II sec. e.v.,[20] collegata al Kṛṣṇa Yajurveda[21]) entra ulteriormente nell'aspetto descrittivo[22]:

«Si dice anche altrove[23]: "Colui che ha i sensi assorti come in un sonno profondo, vede mediante il pensiero più puro (śuddhitamayā dhiyā), come in un sogno, nella caverna dei sensi, ma non soggetto al loro potere, [l'intimo movente,] chiamato oṃ, che ha la luce come forma, che è libero da sonno, da vecchiaia, da morte, da dolore. Egli stesso, chiamato oṃ, diventa lui pure l'intimo movente, libero da sonno, da vecchiaia, da morte, da dolore". Così dice [la śruti]: "Per il fatto che egli unifica (ekadhā yunakti:congiungere) al prāṇa e all'oṃ tutto [il molteplice], e [per il fatto che essi] vengono congiunti (yuñjate), si denomina questo [atto] congiunzione (yoga) suprema'. L'unità del prāṇa e della mente, nonché dei sensi, e la rinuncia a tutte le condizioni [di esistenza], ecco ciò che si considera come unione (yoga)".»

(Maitrī Upaniṣad, VI.25, traduzione di Pio Filippani Ronconi, in Upaniṣad antiche e medie, Torino, Boringhieri, 2007, p. 409)
In questa Upaniṣad troviamo la più antica suddivisione dello Yoga in aṅga (lett.: "braccia", "membra"): prāṇāyāma (controllo della respirazione); pratyāhāra (ritrazione dei sensi); dhyāna (meditazione); dhāraṇā ("connessione profonda"[24]); tarka ("pensiero", "ragionamento"); samādhi ("concentrazione").[25]

«Or ecco il modo di ottenere [l'unione con l'Assoluto]: controllo del resipro [prāṇāyāma], ritraimento [dai sensi degli oggetti nelle corrispondenti facoltà] [pratyāhāra], meditazione [dhyāna], concentrazione [dhāraṇā], riflessione [tarka], assorbimento [nell'Assoluto] [samādhi]; tali sono i sei capisaldi del metodo chiamato Yoga [unione, congiungimento]. Mediante questo, allorché un veggente vede l'Aureo, il Fattore, il Signore, lo Spirito, il brahman, la Matrice, allora egli sa, avendo abbandonato il bene e il male, realizza la onniunità nel Supremo inalterabile.»

(Maitrī Upaniṣad, VI.18, traduzione di Pio Filippani Ronconi, in Upaniṣad antiche e medie, Torino, Boringhieri, 2007, pp. 405-406)
Si tratta quindi di una suddivisione in sei membra, che rispetto a quella classica degli Yoga Sūtra manca delle norme di carattere generale e morale (le osservanze e le restrizioni: yama e niyama), e dove il ragionamento prende il posto della posizione (āsana). Tarka è da intendersi come la riflessione ragionata sugli argomenti delle scritture, dei Veda. Ciò testimonierebbe, secondo questa Upaniṣad, che in questo stadio lo Yoga era principalmente una disciplina di carattere speculativo.[26]

Le vie dello Yoga nella Bhagavadgītā
Lo stesso argomento in dettaglio: Bhagavadgītā.

Kṛṣṇa sul carro di Arjuna; scultura moderna presso Giakarta, Java, Indonesia 2012.
«È appunto questa disciplina antica che io ti ho insegnato oggi. Tu sei il mio fedele adoratore e mio amico; tale è il supremo segreto.»

(Kṛṣṇa: Bhagavadgītā, op. cit, IV.3)
I 18 canti estratti dal Bhīṣma Parva, sesto libro del vasto poema epico Mahābhārata, noti come "Il canto del Divino", costituiscono un poemetto a parte per la decisiva importanza storica e dottrinale che essi rivestiranno nell'Induismo ortodosso.[27] Di datazione incerta, ma comunque non successiva al III-II secolo a.e.v. nella loro stesura finale, salvo ritocchi posteriori, la Bhagavadgītā è incentrata sul dialogo fra il principe Arjuna e il dio Kṛṣṇa, ottavo avatāra di Visnù. Il confronto, sempre in sospeso fra toni ieratici e punte di alto lirismo, è ambientato in un campo di guerra, là dove Arjuna si ritrova a dover fronteggiare in battaglia i suoi stessi familiari. L'angoscia del combattimento e il dilemma morale lo assalgono costringendolo a fermarsi.[28] È qui che Kṛṣṇa, sul carro di Arjuna in veste di auriga, risponde ai suoi dubbi, gli espone le vie della realizzazione, e a lui si manifesta come Dio.[29]

Nella Gītā il termine yoga compare spesso, ma quasi sempre non inteso nel senso di tecnica psicofisica o visione filosofico-religiosa compiuta come in seguito sarà,[30] bensì come condotta di vita, via o percorso verso il divino e quindi verso la liberazione. La molteplicità di questi cammini che Kṛṣṇa presenta ad Arjuna costituisce l'insieme delle vie dello Yoga così come in quest'opera esposte. Fra queste rivestono maggior importanza:[31] il Karma Yoga, la via dell'azione sacralizzata; il Jñāna Yoga, la via della conoscenza spirituale; il Bhakti Yoga, la via dell'abbandono devozionale a Dio; il Dhyāna Yoga, la via della meditazione.[29] Al di là delle particolarità che contraddistinguono i singoli percorsi, lo Yoga esposto in quest'opera è chiaramente teistico, e si presenta come il risultato di una vasto intento sintetico, nel quale ogni via di salvezza è considerata efficace se percorsa nel principio validante della fede.[32]

Karma Yoga
Il termine karma è generalmente tradotto con "azione",e nelle tradizioni dell'induismo è connesso alla dottrina del ciclo delle rinascite, il saṃsāra, tramite quella legge nota appunto come "legge del karma", in base alla quale ogni azione dell'individuo senziente può essere causa di conseguenze che vincolano il suo corpo trasmigrante a tornare in vita dopo la morte del corpo fisico. Si è qui di fronte a una teoria fondamentale in tutte le tradizioni religiose non solo dell'induismo, ma anche del buddhismo, del giainismo e del sikhismo. La liberazione, il mokṣa, da questo ciclo delle reincarnazioni è il fine ultimo di queste tradizioni, perché tornare in vita non è che ritornare nelle sofferenze della vita. Il problema che la Bhagavadgītā si trova a dover affrontare è in fondo il dilemma fondamentale di ogni essere umano: come conciliare il proprio agire quotidiano con la legge morale. E Arjuna si trova in una situazione limite, ben più ardua di quella dell'individuo comune: è a capo di un esercito e dall'altra parte egli vede schierati i suoi stessi consanguinei.

Kṛṣṇa espone ad Arjuna la dottrina del Karma Yoga, che a un primo livello di comprensione è letta come la via dell'azione disinteressata, il distaccamento cioè dai frutti dell'azione stessa[34] e l'adesione al proprio dovere sociale (svadharma) in quanto tale e non come strumento per raggiungere, o evitare, questo o quell'obiettivo, o ostacolo.[35] Più in profondità il Karma Yoga pospone la via dell'ascetismo alla via dell'impegno sociale, reinterpretando quest'ultimo in un'ottica sacralizzata:

«Ma colui che, padroneggiando i sensi mediante la mente, intraprende con distacco la pratica dello Yoga dell'azione, mettendo in opera le proprie facoltà attive, quegli eccelle [fra gli asceti].
(Bhagavadgītā, op. cit, III.7-9)

Bhakti Yoga
La bhakti è la devozione verso una divinità personale, il Signore (Bhagavān), o anche verso il proprio maestro spirituale, attualmente espressa in varie tradizioni religiose dell'induismo come adorazione, trasporto emotivo intenso e resa totale.[39] La bhakti così intesa è propria dei cosiddetti "movimenti devozionali", affermatisi verso il VII secolo nell'India del Sud e poi estesisi altrove, ma già presenti nel periodo in cui la Gītā veniva composta.[40] Nella Gītā compare inoltre per la prima volta la concezione che il Signore possa ricambiare l'affetto del devoto, essergli amico e anche di più.

Il Bhakti Yoga è dunque la via della devozione, la via che scegliendo l'adorazione e l'abbandono nel Signore, conduce così alla liberazione. E, cosa notevole, la Gīta estende ora questa possibilità agli individui delle caste basse e alle donne, tradizionalmente esclusi dal mondo brahmanico:

«Coloro che hanno preso in me il loro rifugio, figlio di Pṛthā, anche se avessero una cattiva nascita, se fossero donne, artigiani o anche servitori, raggiungono il fine supremo.»

(Bhagavadgītā, op. cit, IX.32)
Jñāna Yoga
Jñāna è la conoscenza metafisica,la conoscenza dell'Assoluto, del Brahman cioè

«Mediante questa [conoscenza] tu vedrai tutti gli esseri, tutti, senza eccezione, nel Sé, cioè in me.»
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