"Il pozzo e la luna" Emanuela Lorenzi (accompagna l'arpista celtica Eleonora Ornaghi)

2 years ago
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Dalla postfazione di Narda Fattori

L’autrice di questa silloge è ben consapevole si essersi incamminata lungo un percorso in cui tutto sembra essere stato detto, sul ciglio dunque non solo dell’inefficacia, ma anche della nullità. Eppure Emanuela Lorenzi che ha di queste consapevolezze mi scrive della sua necessitata poesia e la qualifica con queste parole:

“Poesia come imbuto di tutte le assenze e le orfanità, come filtro umano ai silenzi divini, estenuante e densissimo scrigno che implode materico per espandersi in vulnerabili epifanie dello spirito. È l’ineludibile frastuono che perseguita l’orecchio di chi non vorrebbe sentir più le sue promesse di risolvere le inquietudini esistenziali.
Ma quale sfida è più gravosa del riempire degnamente un seducente foglio di carta bianca, mentre tutto è già stato detto (e, pare, nel migliore dei modi possibili)? Non dovremmo forse tacere le nostre ambizioni letterarie riducendole a un più dignitoso e pudico silenzio?........ Con la poesia e la filosofia (cuore e testa in eterno conflitto) ho cercato di ripopolare il mio deserto metafisico di senso, ma vi ho trovato qualcosa di più: le persone e ciò che di elevato sanno - ancora - generare unendo le loro terrenissime forze. Così, l’amore viscerale per la scrittura è riemerso come imperativo irrinunciabile dal silenzio in cui lo avevo costretto, mostrando che essa, quando la penna non indugia in un virtuosismo fine a se stesso, traduce anime e, perciò, umanità. È il tentativo di dare un senso alla matrice attraverso il suo codice verboso, in un continuum dialogico in cui parole e persone si fondono e fondano reciprocamente.”

E, tuttavia, sappiamo che ogni cosa mentale ha un suo retroterra che si perde nelle tenebre e che si rivolge a un immaginario tu intertestuale che è l’interfaccia nascosta ma dialogante con un io consapevole e conscio; dalle tenebre pare di essere usciti per rivedere quelle stelle che apparentiamo alla chiarezza, eppure resta oscuro il processo di reificazione del vissuto emozionale, dell’intima esperienza, della scelta comunicativa (forma- linguaggio- ritmo- lessico- selezione...).
L’ombra come essenza e come doppio.
All’interno di una materia che non è ancora immagine, l’opera è un diagramma spezzato che ricorda le riflessioni di Gilles Deleuze sulla parola poetica che continua a sfuggire e a balbettare, straniera nella sua stessa lingua, traversata da metamorfosi, porosità, continui dissolvimenti e ricuciture.
Qualcuno potrebbe obiettare che dico cose poco adeguate alla scrittura di Emanuela, che è invece limpida e chiara, e rimanda ad un mondo di umori e dolori e domande insolute assolutamente percepibili e non ambigue.
Così è se si resta alla superficie dello scritto. Perché, utilizzando la sua stessa definizione, dalle epifanie dei giorni emerge l’essenza dell’uomo, l’imprescindibile rapporto con la trascendenza e la strenua battaglia per conquistare le parole per dire tutto questo.
Credo che di questa strenua e non sempre vittoriosa battaglia si possa dare ragione citando versi che appartengono alla parte iniziale dell’opera: “Ho bussato più volte/ alla porta del Senso, /una di quelle porte solide/ chiuse a doppia mandata, / senza nemmeno lo spioncino. / Chissà se di là / - e chi e come e / da quanto vicino – / mi avrà mai guardata. / Ora ho smesso di bussare. / Me ne sto qui fuori seduta / sulla panchina d’attesa, / ad aspettare.”

Che la poesia consista nel recupero del senso della parola, nel restituirle tutto il rispetto che si merita senza tener conto di quanto si svilisca nei terrestri giochi, nell’opera è detto e ribadito. Secondo l’affermazione di Alberto Bertoni, docente universitario e grande poeta, “ … alla luce della necessità della trasformazione prima in linguaggio e poi in logos di questa eco interiore, che trae linfa dall’infanzia, dai sogni, dai traumi, dai tabù, dai feticismi non risolti e non razionalizzati, e anche dal vissuto individuale e dal piacere di imprimere la forma concentrica dell’onda sonora all’aria nella quale siamo immersi, non sarà solo una bella metafora del testo poetico ad assimilarla a una partitura musicale, con il suo nesso inestricabile tra il rigore di una struttura perfettamente compiuta e la libertà ritmico- intonativa di ogni esecuzione” (A. Bertoni, La poesia, Il Mulino).

Credo che la poesia della Lorenzi abbia tutte queste stimmate, lacerazioni che dolgono e la fanno sussultare e interrogare il mondo e la divinità delle motivazioni di tanto dolore. La risposta è il silenzio: “E tu, / che baci / la tua amata, / non la vedi/ la mia carne straziata? e ancora: “Non è forse vero / che il vero Libro comincia/ piccola voce ferita / al limitare del silenzio?
Dunque si resta al limitare delle risposte, all’interno dei propri interrogativi e il non risolto impregna i giorni, ne sfuma i colori, perfino l’ironia che qua e là s’affaccia nei versi. È una maniera un po’ disperata di difendersi, giacché sappiamo che i nostri mali sono fra i tanti del mondo e degli altri, ma per noi sono quelli i soli, i veri, che dolgono e ci regalano uno statuto preciso d’identità.
Ma le frequenti deissi che incontriamo nelle poesie che costituiscono quest’opera, rimangono anche all’ambiguità, ad un silenzio che il lettore deve riempire con le proprie esperienze e inferenze, collegando parole a parole, esplicito e implicito.

Vero è che l’apparente semplicità delle poesie della Lorenzi cela un universo di senso e di esperienze che vogliono restare segrete, come dono per il lettore; infatti questo universo sottotraccia deve essere scoperto o- riscoperto seguendo il filo degli indizi disseminati lungo l’opera. Il conservare sottaciuto la parte ombelicale dell’io, quella che vorrebbe imporsi come la sola referente del contenuto e del messaggio, consente alla Lorenzi di snodare la sua poesia lungo un percorso non sempre lineare; sono numerose le incursioni nella natura, nella letteratura, nelle cartoline da città e luoghi, nelle vestigia di personaggi celebri tratteggiati con benevola ironia. Valencia scompare come città ed è solo il topos dell’incontro con l’amore che finalmente è in grado di ascoltare le sue domande e di abbracciare intero il suo mondo.

“ ………/ Come l’atavica roccia/ rende il fossile alla vita/ tu, stampo della mia anima./ Immagine restituita”; ma nessun’altra descrizione, naturale o culturale, resta nell’ambito del descrittivismo e della compiaciuta essenza; tutte queste poesie non rompono l’unitarietà dell’opera perché vi si inscrivono come piccoli cammei a completarne l’aspetto: sono immagini e Sophie.
La poetessa scommette su questa sua distanza da ogni formalismo e da ogni gioco intellettuale: “ i virtuosi servi della forma / si fanno mercanti /della fumosa parola / cucita addosso/ al nulla.”

L’opera è strutturata in quattro temi, apparentemente lontani e invece tutti afferenti all’esperienza intellettuale, fisica ed esistenziale dell’autrice. Nella prima sezione si affronta il tema della poesia, così come sopra ho provato a dirla, come rifugio non sufficiente all’impeto dei venti contrari, ma rifugio comunque, piccola oasi per ordinare il difforme, il disorganizzato (Caos sarebbe parola troppo destabilizzante). La seconda sezione coinvolge la metafisica, il rapporto conflittuale con un’ingenerosa divinità alla quale pure Emanuela crede e si appella come tante altre volte si è appellata traendone un penoso silenzio. È il silenzio doloroso della sua anima ferita, prima che della divinità.
A seguire abbiamo la sezione dedicata al cuore, all’amore che ha intrapreso sul suo corpo un percorso e ne ha tracciato un disegno che pareva non dovesse compiersi. Sono bellissimi versi, di grande intensità.
Infine incontriamo i versi della carne, versi dolcissimi e duri come il diamante, duri come la faticosa conquista di una difficile maternità.

Ne “Il pozzo e la luna” ci sono versi calibratissimi, di un lirismo contenuto e molto ben padroneggiato; sono numerose le assonanze che rimarcano il ritmo e facilitano la pronuncia rendendola più “morbida”; qua e là incontriamo perle di insuperabile poesia, moti di leggerezza a sgravare i pesi del cuore, un lessico quotidiano, ma mai banale, che qualche volta si rifugia in qualche lessema desueto (per assonanza, per ribadirne il valore, …), e incontriamo anche l’uso, insolito nella poesia contemporanea, di qualche maiuscola posta all’inizio di parole che normalmente ne sono prive; stanno a significare una dilatazione del senso oltre l’uso e il vocabolario, quasi fossero poste su una scala che avvicina al cielo (Cielo, avrebbe scritto Emanuela) .
Sono scelte significative dunque, non vezzi. Non ho detto che alcune poesie sono scritte in francese o in spagnolo e poi tradotte dall’autrice che bel conosce queste lingue; questa perfetta padronanza le consente di utilizzarle quasi fossero la sua lingua madre.

Vorrei concludere con pochi versi che stilizzano la posizione di Emanuela davanti alle domande insolute: “ …/ L’anima è un luogo / prima del mondo. / E dopo.”

Le parole del titolo operano un rovesciamento della visione consueta “La Luna e il pozzo o La Luna nel pozzo”, sogno e bellezza che esistono sulla terra in quanto specchiati in una circoscritta pozza d’acqua; non è casuale questa ottica rovesciata: il pozzo è terrestre, concreto, soddisfa bisogni, richiede cure; la luna appartiene al mondo altro, concretamente prende vita nel sogno e nella trascendenza, necessari come la cruda realtà.

Narda Fattori

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